Il 2 settembre 1870 le truppe di Napoleone III sono sconfitte a Sedan e lo stesso Imperatore è fatto prigioniero. La Francia non è più in condizione di far rispettare i patti del 1864 e, per il novello Regno d’Italia, si presenta l’occasione buona per guardare verso Roma.
Il 5 settembre Cadorna è nei pressi di Spoleto con tre divisioni alle sue dipendenze: la 11a al comando del generale Enrico Cosenz, accampata a Rieti, la 12a, guidata dal gen. Gustavo Mazé de La Roche a Terni e infine la 13a agli ordini del gen. Emilio Ferrero, a Orvieto.
La mattina del 12 settembre tutte le divisioni italiane varcano il confine dello Stato pontificio. La prima scaramuccia, con 3 feriti fra i papalini e 7 fra gli italiani, avviene per la presa di Civita Castellana.
La divisione Bixio conquista Civitavecchia il 15 settembre, che capitola senza opporre resistenza. Lo stesso 15 settembre, le quattro divisioni sono ormai nelle vicinanze di Roma. A Sant’Onofrio, sulla Trionfale, c’è uno scontro a fuoco con alcuni zuavi papalini in ritirata e gli italiani hanno il primo caduto: il sergente Tommaso Bonezzi, dei Lancieri di Novara.
Il 17 le truppe italiane passano dalla riva destra alla riva sinistra del Tevere ed ogni divisione occupa le posizioni previste dal piano d’attacco. Complessivamente le truppe italiane schierate comprendono18 reggimenti di fanteria, 11 battaglioni bersaglieri, 16 batterie di artiglieria, 10 squadroni di cavalleria, 2 reggimenti granatieri e una compagnia del genio, per un totale di circa 50.000 uomini, 7.500 cavalli e 114 cannoni. Forze sovradimensionate per una azione che sarà prettamente simbolica.
L’esercito papalino è costituito da un reggimento di fanteria, uno di zuavi, uno di carabinieri stranieri, un battaglione di cacciatori, un reggimento dragoni, un reggimento di artiglieria, la gendarmeria e i volontari pontifici, per un totale di 14.000 uomini e 40 cannoni.
Il Papa è preoccupato e non riesce a prendere sonno. Appassionato di sciarade, Pio IX è nel suo studio che si sta cimentando con uno di questi giochi di parole. Ma è nervoso, non riesce a concentrarsi, eppure la parola di sette lettere risolutiva dell’enigma è in quel momento più che mai azzeccata: “tremore”. Alle 5,10 del 20 settembre, con cinque minuti di anticipo, partono i primi colpi dell’artiglieria italiana, sia i “diversivi” che quelli “mirati”. Il primo proiettile è sparato da un artigliere ebreo, perché… non si sa mai arrivasse la scomunica!
Sul campo, nei dintorni delle postazioni militari, vi sono centinaia di civili che assistono all’ azione di guerra. Fra loro vi è di tutto: patrioti che non vogliono perdersi l’ingresso in Roma, perseguitati politici esiliati dallo Stato Pontificio che attendono di rientrare in famiglia, poeti, pittori che vogliono immortalare la battaglia, giornalisti, fra cui Carlo Arrivabene corrispondente del “Daily Telegraph”, Ugo Pesci del “Fanfulla” ed Edmondo De Amicis per “Vita Militare”. Ma anche venditori ambulanti, semplici curiosi, saltimbanchi e “donne di malaffare”. E’ il primo evento mediatico della Storia d’Italia. Alle 6,50 crolla un tratto di mura fra la Pia e la Salaria, ma rimangono ancora 4 metri di ostacolo di tiri degli italiani proseguono. Sono le sette, lo studio del Papa trema sotto l’eco delle cannonate, ma Pio IX decide ugualmente di celebrare la messa mattutina. Ormai, dopo più di 300 cannonate italiane sparate fra Porta Pia e la Salaria, anche ai papalini appare chiaro che proprio lì vi è il tentativo di aprire una breccia. Le mura Aureliane stanno cedendo del tutto e alle 9,05 i vertici pontifici si riuniscono a palazzo Wedekind per decidere se arrendersi o continuare la resistenza. Fuori le mura, poco dopo le 9, fra Pia e Salaria, una pattuglia di bersaglieri va in avanscoperta fin sotto la breccia e riferisce che ormai lo sventramento effettuato è percorribile da truppe appiedate. Vengono quindi predisposti per l’assalto finale il 34° btg. bersaglieri e 3 btg. di fanteria da Villa Albani, il 12° btg. bersaglieri e il 2° btg. del 41° fanteria da Villa Falzacappa, quindi il 35° btg. bersaglieri con il 39° e il 40° rgt. fanteria da Villa Patrizi.
Sono le 10,05 e tutto sembra finito. Ma fuori dalla breccia ci sono due divisioni di soldati italiani che si ammassano e spingono per entrare nella città. A poche decine di metri altri pontifici, che trovandosi a Villa Bonaparte non hanno ancora ricevuto l’ordine di resa, aprono un fitto fuoco di fucileria sulla folla di militari italiani ancora fuori Porta Pia e uccidono 4 bersaglieri, fra cui il maggiore Giacomo Pagliari, ferendo altri 9 soldati di varie specialità. C’è un momento di smarrimento, di stasi. Ma alle 10,10 i bersaglieri del 12° battaglione avanzano al passo di carica, baionetta inastata e, incitati dalle note che il trombettiere suona per dare ancor più vigore all’assalto, superano la breccia regalandoci quella icona risorgimentale che rimarrà impressa nell’immaginario collettivo e nei testi di Storia. Il primo bersagliere a superare la breccia è il sottotenente Federico Cocito, del 12° battaglione. Passati i primi fanti piumati, un boato di esultanza si leva dalle divisioni che premono dietro di essi per entrare nella città eterna, quella che ora sarà la capitale della nuova Italia. Non solo. Lo stato laico ha vinto su quello confessionale. Il progetto di Cavour è realizzato.
Ovunque, nelle strade e nelle piazze, ai militari italiani vengono riservate ovazioni, abbracci e applausi. I bersaglieri liberano gli ebrei dal ghetto, ai quali non par vero di riacquistare libertà e dignità dopo secoli di discriminazione.
Nell’azione, l’ Italia subisce complessivamente 20 caduti e circa 100 feriti.
LA CURIOSITA’
Guardando il quadro del Cammarano, il primo bersagliere a sinistra della prima fila aveva nome Paolo Redaelli, ed era nato in provincia di Lecco. Arruolato nei bersaglieri, in procinto di partire da casa domandò al padre un poco di soldi, ma questi gli rispose che non erano necessari perché l’esercito avrebbe provveduto a tutto. Dopo aver partecipato all’impresa di Porta Pia, il Cammarano chiese al Redaelli di posare per l’opera che lo renderà famoso e lo compensò con cinquanta lire d’argento. Congedatosi, il Redaelli tornò in Lombardia e spese quel piccolo tesoro in trattorie, vino e donne. Poi, senza più un soldo, si consegnò ai carabinieri che lo rispedirono a casa con un foglio di bassa. Presentatosi al padre gli disse: “Visto? Partito con niente e… tornato con niente”.