LA TRAGEDIA DELLE FOIBE. GLI ITALIANI NON DIMENTICHINO!

1944 – A Fiume una famiglia italiana sta vivendo giorni di ansia per il rastrellamento che stanno compiendo i titini. Lucia, la madre, ha già visto fuggire il marito verso Trieste e ora sono con lei i due figli Gianmarco di 14 anni e Giorgio, ormai adulto. E’ sera. Dal furioso abbaiare del loro cane lupo la famiglia avverte pericoli e Giorgio fa appena in tempo a fuggire dal retro della casa scomparendo nel bosco. Gli uomini con la stella rossa sulla bustina arrivano, uccidono il cane e mettono a soqquadro l’abitazione. «Dov’è tuo figlio?» è la domanda posta fino all’ossessione. Ma nessuno lo sa. «Allora prenderemo il più piccolo, lui parlerà». Interrogato e malmenato a sangue, il ragazzino ignora davvero dove sia fuggito il fratello Giorgio. Con una camminata che dura tutta la notte è condotto con altri catturati fino alla foiba dei Colombacci. Lì, un altro gruppo di sfortunati è già in attesa. Vengono quindi tutti legati e portati sull’orlo della foiba. Poi, poco prima che il titino spari sul capofila affinché trascini gli altri nel baratro, uno degli arrestati grida al ragazzino «So per certo che tuo fratello Giorgio è in salvo!». «Meno male – è la risposta di Gianmarco – almeno lui…». E sono le sue ultime mozze parole.

Ma le storie da raccontare sulle atrocità subite dagli italiani nella ex-Jugoslavia del 1944-45 sarebbero mille e mille.

Brandelli di carne in putrefazione e scheletri. Metri cubi su metri cubi di ossa con qualche misero straccio, residuo di un abbigliamento. Erano i giorni del dopoguerra in cui le cavità carsiche rivelavano il loro raccapricciante contenuto. Ci sono molti modi per uccidere, ma quello di gettare esseri umani vivi nelle foibe è tra i più sadici che la storia ci abbia tramandato. Fra il 1943 e il 1945, in territorio italiano e sloveno, uomini, donne, ragazzi, venivano legati con il fil di ferro a mani e polsi e poi fra loro, in fila indiana. Una raffica di mitra al primo sull’orlo della voragine e gli altri lo avrebbero seguito, inghiottiti dal ventre della terra, per morire subito dopo un volo di decine di metri o rimanere agonizzanti su un cumulo di cadaveri. Quanti furono? C’è chi dice dieci, forse quindicimila. L’unica colpa? Essere italiani.

Rossana Mondoni, scrittrice, editò “Nel nome di Norma”, con le memorie di Norma Cossetto, profuga istriana che ebbe la famiglia disgregata e gettata in varie foibe. La sorella Licia riconobbe i resti di Norma  grazie ad un golfino tirolese regalatole dal babbo.

La tragedia dei connazionali di Istria, Dalmazia e Fiume, perpetrata dall’odio comunista titino e rimasta un tabù per oltre mezzo secolo, sarà raccontata con il film “Red land” (Istria rossa) il prossimo 8 febbraio  in prima serata su Rai 3. Dopo gli eccidi, l’esodo dei trecentocinquantamila che abbandonarono casa, poderi, affetti, per buttare poche masserizie su un carretto e fuggire verso quella Patria che non avrebbe dovuto tradirli. Magari ammassati sul traghetto “Toscana”. La sofferenza degli esuli proseguì in quella Italia dove speravano di essere compresi e ben accolti. Relegati nei campi profughi, furono spesso evitati, guardati con diffidenza e i loro figli discriminati a scuola. Alla stazione ferroviaria di  Bologna vennero loro rifiutati alimenti e latte per i bimbi perché colpevoli di fuggire dal “Paradiso socialista” di Tito.

Ancora oggi ci chiediamo perché.

                                                                                                                                  Daniele Carozzi