Spari e rumore di carri armati. Era il Settembre del 1943 e l’Italia aveva appena firmato l’armistizio. Con la consueta velocità e aggressività, i tedeschi avevano circondato la caserma dei Bersaglieri a Udine. Dopo aver sparato qualche colpo, i soldati italiani si resero conto di non aver scampo poiché erano sovrastati dalla fanteria tedesca e dai mezzi blindati che la accompagnavano. I giovani italiani non ebbero altra alternativa se non arrendersi.
Rapidamente i tedeschi caricarono i Bersaglieri sulle loro camionette e li portarono allo stadio di Udine, che doveva temporaneamente servire come campo di concentramento per i soldati catturati. Ad essi vennero date due scelte: combattere a fianco dei tedeschi per fermare l’avanzata alleata oppure essere deportati in Germania per venire sottomessi ai lavori forzati e dunque destinati ad una morte certa.
La giovane recluta Vito Bianco si era unita ai Bersaglieri da pochi mesi. Aveva sostenuto le lunghe marce di allenamento ed era ormai pronto per combattere. Poco prima di arruolarsi, era stato ospite di una piccolo pensione a Udine. Qui aveva lasciato i suoi vestiti da borghese visto
che non sapeva come sbarazzarsene.
Questo scelta si rivelò fortuita. Non avendo mezzi e risorse sufficienti per il sostentamento dei soldati italiani, i tedeschi dovettero ricorrere ai locali per sfamare i prigionieri che si trovavano all’interno dello stadio. Cosciente di questa situazione, Vito chiese immediatamente ad uno dei locali di andare alla pensione e portargli i vestiti da civile.
Fu così che il giorno seguente, nascosti sotto teglie di cibo, gli indumenti vennero introdotti in modo clandestino nello stadio. Incredibilmente, Vito riuscì, dopo aver attentamente studiato il comportamento delle guardie tedesche, ad infilarsi i vestiti sopra alla divisa da Bersagliere. Allo
scadere del tempo delle visite concesse agli Udinesi, Vito uscì poi insieme a tutti i visitatori dallo stadio, mascherato da civile con una signora al braccio.
Nonostante fosse riuscito a sfuggire ai tedeschi, Vito Bianco non era però che all’inizio di una pericolosa avventura. Egli era di Ginosa, un piccolo paesino pugliese in provincia di Taranto.
Una volta libero, doveva trovare un modo per tornare a casa.
La distanza tra Udine e Ginosa è di circa 900 km, ma questo dato non intimoriva Vito. Egli era un Bersagliere e i Bersaglieri erano rinomati per le loro formidabili doti di marcia. Durante la seconda guerra mondiale, i giovani che venivano reclutati nel corpo dei Bersaglieri erano robusti
e in possesso di grande stamina. Venivano sottoposti ad estenuanti allenamenti fisici e a marce di lunga durata. I capi dell’armata Italiana continuarono a mantenere vigorose le speciali abilità dei
Bersaglieri, nonostante una corrente di ufficiali militari, spaventati dal numero di soldati impegnati nelle campagne di Russia, avesse spinto verso un rilassamento dei criteri richiesti per diventare Bersagliere.
Fu per questa ragione che Vito, nel tentativo di tornare a casa, riuscì a camminare per circa nove o dieci ore al giorno con un andamento formidabile. Questo gli permise di percorrere tra i trenta
e i quaranta km di marcia ogni giorno.
All’inizio di questa sua odissea era però per Vito impossibile usare le strade principali.
L’armistizio era stato firmato il 3 Settembre del 1943 e le forze alleate erano a malapena riuscite a raggiungere Napoli. Il resto dell’Italia era ancora sotto il controllo dei tedeschi, e Vito temeva dunque di essere nuovamente catturato. Fu così che percorse il sua cammino attraverso campi di
granoturco. Si rinfrescava quando riusciva a trovare un ruscello, e mangiava occasionalmente grazie alla generosità di alcuni contadini. Essi lo accudivano e lo sfamavano con un po’ di formaggio, pane raffermo e vino nonostante questa generosità poteva costare cara a loro e alle
loro famiglie nel caso in cui venissero scoperti. Al tramonto Vito crollava, stremato, sotto a un albero o in mezzo a qualche campo. Dormiva con un occhio aperto, sempre accorto e timoroso dei tedeschi.
Una delle fasi più ardue fu, senza dubbio, attraversare il fronte a Volturno nel tardo Settembre del 1943. Qui si era difatti fermata l’avanzata alleata. I tedeschi, in particolare il maresciallo di campo Albert Kesselring, avevano deciso di combattere una guerra difensiva in Italia.
L’intenzione era quella di distruggere il morale dei soldati e dimostrare al comando britannico e americano che raggiungere la Germania attraverso la penisola Italiana era nulla fuorché impossibile. In vista di questo piano d’azione, la Wehrmacht aveva costruito una serie di linee
fortificate. Questo avrebbe permesso ai tedeschi di eseguire ritirate strategiche senza grandi conseguenze. La prima di queste linee era la Linea del Volturno, così chiamata perché situata sul fiume Volturno. Qui si era fermata in metà Settembre l’avanzata dell’Ottava Armata inglese e
della Quinta Armata americana.
Sulla Linea del Volturno i combattimenti erano brutali e feroci. Gli alleati e i tedeschi si scambiavano colpi di artiglieria e mortaio giorno e notte, fermandosi esclusivamente per recuperare i morti e i feriti.
Fu in questo inferno che Vito Bianco si ritrovò dopo un paio di settimane di marcia. Di fronte a lui si ponevano vari ostacoli. Innanzitutto il rischio di venir catturati aumentava di giorno in giorno. Come in ogni battaglia, pattuglie tedesche perlustravano il fronte senza sosta, fatto che
impediva a Vito di muoversi liberamente. C’era inoltre la possibilità di essere scambiato dagli alleati per un soldato nemico. Questi pericoli resero l’attraversare il fronte una prospettiva quasi mortale per Vito, il quale però non poteva far altro se non proseguire il suo viaggio. E dunque,
con il favore di una notte senza luna, Vito decise di attraversare il fronte a Volturno. Dopo aver trovato un punto del fronte privo di postazioni tedesche e nascondendosi tra le frasche, riuscì a raggiungere il campo alleato indenne.
Ormai il pericolo era scampato e a Vito non rimanevano che gli ultimi chilometri. Dopo qualche altro giorno di marcia raggiunse finalmente la sua cittadina natale: Ginosa. Incredulo dopo essere sopravvissuto a venticinque pericolosi giorni di marcia, si recò a casa e bussò alla porta. A presentarsi all’ingresso fu sua madre, la quale, ormai convinta che non avrebbe mai più rivisto suo figlio, non poteva credere ai suoi occhi. Vito era finalmente a casa.
Dopo la guerra, Vito lasciò Ginosa per studiare alla Normale di Pisa dove conobbe colei che sarebbe diventata sua moglie: Giuliana. Alla fine degli anni Sessanta emigrò in Sud Africa, dove fu mandato ad aprire uno dei primi stabilimenti di produzione all’estero per conto dell’Alfa Romeo. Ebbe due figli: Nicolò e Maurizio.
Non gli piaceva parlare della guerra, ma nei suoi racconti si comprendeva come difficilmente avrebbe potuto affrontare il lungo ed estenuante cammino attraverso l’Italia se non fosse stato per il rigore dei suo allenamenti da Bersagliere.
di Giulio Maria Bianco, l’appassionato ricordo di un nipote fiero del nonno Bersagliere.